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La Gaza del futuro: oasi di pace o recinto di vendetta?

Il piano di pace, le accuse di crimini di guerra e la sfida tra perdono e vendetta in una Striscia ridotta in macerie. L'editoriale di Paolo Insolia

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Israele - Palestina Israele - Palestina © OKM
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Il piano di pace di Donald Trump e Netanyahu, firmato a Sharm El-Sheikh - città egiziana bagnata dal Mar Rosso - da Trump e dai tre leader mediatori tra Israele e Hamas - l’organizzazione terroristica che governa la Striscia di Gaza da quasi vent’anni  ovvero al-Sisi, Erdogan e Al Thani, rispettivamente i presidenti di Egitto, Turchia e Qatar, metterebbe fine a una guerra spaventosa che ha avuto inizio il 7 ottobre 2023, giorno in cui Israele è stato messo in ginocchio dai terroristi palestinesi di Hamas. Il piano, e di conseguenza la pace, arriva tardi da tutti i punti di vista. Non c’è un abitante di Gaza che non pianga la perdita di un parente o di un amico, e le infrastrutture non distrutte o danneggiate dai missili sono rare. Il piccolo enclave è una distesa di rovine, e ci vorranno anni per ricostruirlo, se non decenni.

Un doveroso riassunto. All’indomani del 7 ottobre Netanyahu scatena una rappresaglia che mira a colpire i membri di Hamas, ma a rimetterci è anche e soprattutto la popolazione civile. Secondo l’intelligence israeliana, Hamas ha basi operative all’interno di palazzi, scuole, ospedali e tanti altri edifici civili, ma al governo di Israele non importa, e li colpisce. L’uccisione di anziani, donne e bambini viene giustificato dal fatto che il male da estirpare, ovvero il terrorismo di matrice islamica, è troppo profondo, oscuro e inguaribile per continuare a vivere.

Hamas fece male i calcoli; con tutta probabilità i suoi leader non pensavano che Netanyahu e i suoi ministri di estrema destra, primo fra tutti quello della Difesa Yoav Gallant,sarebbero arrivati a tanto, attirandosi le ire della Corte Penale Internazionale, tribunale con sede all’Aia, nei Paesi Bassi, basato sullo Statuto di Roma - un trattato internazionale che punisce individui colpevoli di aver commesso crimini contro l’umanità, di guerra, di aggressione e genocidio - che ha emesso per entrambi un mandato di arresto. O forse Hamas sperava - com’è successo - in una risposta così devastante affinché i suoi alleati entrassero in guerra al loro fianco. Anche l’ONU si è scagliato contro i due governanti israeliani: un suo organismo, la Commissione internazionale indipendente d’inchiesta, accusa Israele di star commettendo un genocidio a Gaza, un atto gravissimo che ha un peso ancor più maggiore se si pensa alla Shoah, il genocidio subìto dal popolo ebraico durante la Seconda guerra mondiale per mano dei regimi nazista e fascista.

Netanyahu ha scelto la strada del sangue, della decapitazione totale del terrorismo che ha ferito il suo paese. Non ha cercato alcuna forma di diplomazia, poiché considera i colpevoli di quelle atrocità - costate la vita a 1200 cittadini israeliani - uomini non degni di vivere, e che quindi andavano fatti fuori. Se prima del 7 ottobre la Striscia di Gaza era una prigione a cielo aperto, dopo quella data è diventata un inferno a cielo aperto. I video di bambini feriti, o peggio morti per via dei bombardamenti, rimarranno impressi nella nostra memoria a lungo. L’indignazione e la rabbia per l’operato del governo di Tel Aviv hanno fatto sì che migliaia e migliaia di persone di ogni paese del mondo si radunassero nelle piazze per manifestare solidarietà al popolo palestinese e per chiedere giustizia per tutto il dolore provocato.

Le iniziative non sono mancate, la più importante delle quali porta il nome di Global Sumud Flottilla, o GSF, un’iniziativa umanitaria sorta nel 2025 e organizzata da settori della società civile con l’intento di portare viveri e medicinali nella Striscia di Gaza, sottoposta dal 2007 - anno in cui Hamas ha iniziato a governare il territorio - a un blocco da parte di Israele, che consente l’entrata soltanto di beni sufficienti a evitare una crisi umanitaria. Dal 7 ottobre 2023 il blocco si è intensificato, causando malnutrizione tra la popolazione. Dall’analisi pubblicata nell’agosto scorso dell’Integrated Food Security Phase Classification (IPC) - strumento che utilizza scale di valutazione usato per definire la natura e la gravità di una crisi alimentare - emerge che a Gaza è in corso una carestia che colpisce mezzo milione di persone (IPC Fase 5). Secondo le previsioni, a fine settembre la cifra si è attestata a 640.000, e se consideriamo che un altro milione e mezzo si è trovata in emergenza - 1,14 milioni (IPC Fase 4) - e in crisi - 360.000 (IPC Fase 3) - si comprende bene la gravità della situazione.

Netanyahu ha respinto ogni accusa di carestia e genocidio, affermando che gli aiuti alimentari nella Striscia arrivano con costanza, ma i membri di Hamas li rubano per garantire la loro sopravvivenza, gli stessi che da due anni usano i civili come scudi umani per proteggere le loro basi operative, come i tunnel sotto gli ospedali Al-Shifa di Gaza e Nasser Hospital di Khan Yunis, bombardati dall’esercito israeliano per portare a termine la missione di spazzare via Hamas.

C’è chi rifiuta di credere che Israele stia commettendo un atto così deplorevole come il genocidio, facendo leva sul fatto che ha diritto di difendersi da terroristi che vogliono la sua distruzione ma, purtroppo o per fortuna - i due avverbi variano in base al grado di pretotenza personale - esiste qualcosa chiamato diritto internazionale che regola la vita della comunità internazionale, ossia l’insieme di stati, organizzazioni e istituzioni che hanno accettato, tramite la stipula di trattati e la formazione di consuetudini, di rispettarlo. Israele è un membro delle Nazioni Unite dal 11 maggio 1949, e come tale è obbligato a rispettare le norme internazionali - la Carta delle Nazioni Unite è una fonte del diritto internazionale - pena sanzioni di vario tipo e, in casi di violazioni del diritto umanitario e dei diritti umani, addirittura al perseguimento penale dei responsabili, com’è accaduto a Netanyahu e Gallant.

Il diritto internazionale è necessario affinché coloro che sono al potere tengano a bada il proprio istinto primordiale di potere e distruzione. La Convenzione sul genocidio - il primo trattato internazionale sui diritti umani adottato all’unanimità dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 9 dicembre 1948 - vieta la messa in atto del genocidio sempre, in qualunque circostanza, anche in seguito a un attacco terroristico da parte di un’organizzazione politica che governa un paese, com’è accaduto il 7 ottobre 2023. Se si va a leggere l’articolo 2 di tale Convenzione, che riporta i cinque atti per cui si può ritenere che quello in corso è un genocidio, ebbene Israele ha commesso i primi quattro - uccisione di membri del gruppo; lesioni gravi al’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; l’imposizione intenzionale di condizioni di vita che determinino la distruzione fisica, totale o parziale, del gruppo; misure miranti a impedire le nascite all’interno del gruppo - ma non l’ultimo, ossia il trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo a un altro. Secondo la Convenzione, basta uno soltanto di questi atti per parlare di genocidio.

Ovvio ma non scontato, non bastano gli atti in sé a definire un genocidio, ma devono essere accompagnati da un preciso intento, che si esplica con la seguente formula, contenuta nella Convenzione sul genocidio: l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Qui il tema si fa spinoso, perché mentre il governo israeliano si difende dichiarando che il suo obiettivo non sono i civili ma i terroristi, sono molti a sostenere la sua colpevolezza. Oltre all’ONU, organizzazioni non governative come Amnesty International e Save the Children sostengono che a Gaza si può parlare di genocidio. Gli stessi esperti del fenomeno, facenti parte della Associazione internazionale degli studiosi sul genocidio (IAGS), sono della stessa opinione: il 28% dei suoi 500 membri ha preso parte al voto, e di questo l’86% si è detto favorevole al fatto che è in atto un genocidio.

Tutti noi abbiamo visto le immagini della distruzione di Gaza, e ogni giorno il bollettino presenta nuovi morti da sommare ai precedenti - bisogna dire che è Hamas a fornire il bollettino, e le cifre possono essere volutamente falsate al rialzo -. Le immagini e i video però parlano. All’interno di un territorio in guerra è normale assistere alla potenza distruttiva delle armi, ma a Gaza, come si può vedere, si è superato ogni limite. Israele è andato contro il Diritto Internazionale Umanitario (DIU), l’insieme delle norme del diritto internazionale che riguarda la protezione delle vittime di guerra o dei conflitti armati, il quale vieta di aggredire intenzionalmente i civili. L’esercito israeliano avverte la popolazione civile di evacuare le zone che saranno colpite, ma la maggioranza delle volte attacca senza alcun proclama, e a rimetterci sono gli innocenti. Il principio di proporzionalità e necessità militare contenuto nel DIU è stato violato in maniera ingiustificabile.

Parlare di genocidio a Gaza è complicato poiché la coscienza comune ha in mente soltanto le modalità che hanno portato all’Olocausto. Il nazismo al potere aveva un preciso piano di sterminio di un gruppo etno-religioso e etnie considerate inferiori, e fece costruire campi di sterminio con camere a gas e forni crematori. La situazione a Gaza è ben diversa, e confesso che fino a pochissimo tempo fa io stesso faticavo a utilizzare questo termine, però a volte bisogna mettere da parte le proprie convinzioni personali e fidarci di studiosi accreditati e di enti di un certo peso, ma soprattutto del diritto internazionale. Non si può rispondere a un massacro, a un attentato terroristico, con un massacro di proporzioni più grosse. Mettersi nei panni dei governanti di Israele all’indomani del 7 ottobre è impossibile, ma è prevalsa la sete di vendetta, che si è estesa nei confronti di un intero popolo.

La partita più importante si giocherà a fine guerra, a fine sterminio. Spesso, per non dire sempre, la narrazione che viene fatta del conflitto in Palestina si basa sul cercare le colpe primigenie dell’uno o dell’altro paese. Se la colpa primigenia è dei palestinesi, allora Israele ha sempre ragione e ha tutto il diritto di difendersi, e viceversa. Secondo tale pensiero la colpa iniziale ha dato il via a una serie di rimpalli tra il buono e il colpevole, che cambiano a seconda della propria idea.

Un esempio di dialogo tra due conversatori:

Appena Israele è stato fondato, i paesi arabi hanno cercato di distruggerlo, quindi Israele ha tutte le ragioni per combattere chi vuole la sua fine”, la cui risposta sarà: “Israele non sarebbe mai dovuto esistere, perciò i palestinesi e loro amici arabi hanno fatto bene ad attaccarlo”. Oppure: “Nel 1948 gli israeliani hanno cacciato dalle loro case centinaia di migliaia di palestinesi, una disfatta a cui è stato dato un nome, Nakba - catastrofe in italiano -, quindi è giusto che questi ultimi facciano la guerra per riprendersi le loro terre”, la cui risposta sarà: “Oramai quei territori, che sono stati presi durante la guerra, sono israeliani, perciò i palestinesi devono mettersi l’anima in pace e accontentarsi della terra che hanno”.

Il seguente modo di argomentare si radica ogniqualvolta si tenta di spiegare un fenomeno.

“Hamas ha così tanto consenso perché Israele ha reso Gaza invivibile, ma Israele ha reso Gaza invivibile per colpa di Hamas che considera un’organizzazione terroristica, nata come gruppo di resistenza in quanto Israele sottopone i palestinesi a un regime di apartheid. Israele sottopone i palestinesi a un regime di apartheid perché nel corso della storia i palestinesi hanno commesso innumerevoli attentati terroristici, e deve controllarli per far sì che non accada più. I palestinesi commettono attentati terroristici perché Israele ha rubato le loro terre, che però Israele dichiara legittime, eccetera eccetera eccetera”.

La narrazione, insomma, è un gatto che si morde la coda, e per guardare al futuro è necessario che il gatto venga ucciso. E’ la pace che deve interessare, la convivenza pacifica, e non la rincorsa alle colpe, che porta a nient’altro che guerra. Necessario è anche far poggiare l’idea di futuro su certezze granitiche, e partire da lì. La prima certezza è che Israele non potrà mai e poi mai cessare di esistere - come vorrebbero l’Iran e gruppi terroristici quali Hamas e Hezbollah - e la seconda è che Israele dovrà accettare di convivere con a fianco uno stato palestinese. Sembrano premesse scontate, ma non lo sono affatto.

Fino a quando ci saranno individui che pensano che uno dei due paesi debba estinguersi, come i tanti giovani occidentali alle manifestazioni pro-palestina che reggevano cartelli con apposta la frase: from the river to the sea, ovvero dal fiume al mare - a significare che in quella terra non deve esserci spazio per Israele, ma soltanto dello Stato di Palestina - o i tanti estremisti israeliani che credono, secondo ciò che si legge nei loro libri sacri, che la Palestina debba essere abitata unicamente agli ebrei, la pace sarà lontana. I palestinesi non lasceranno la loro terra; è una questione che ha a che fare con la loro identità di popolo, di principio, di resistenza. Sono quasi ottant’anni che resistono a condizioni disumane nel loro paese occupato militarmente, subendo soprusi di ogni tipo, come la demolizione delle proprie abitazioni per fare spazio a insediamenti israeliani illegali.

La soluzione dei due stati è l’unica opzione concreta percorribile, ma bisogna chiedersi se le parti in causa accetteranno mai un compromesso simile, ovvero riconoscersi come parte integrante del proprio territorio. Il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte dei paesi europei è, di fatto, un atto simbolico e ininfluente. La questione reale è se Israele, dimenticando tutto ciò che è accaduto in passato, riconoscerà uno stato palestinese con confini ben definiti - la vera, grande sfida sarà disegnare i confini dello Stato di Palestina -. Per farlo, deve attuare misure quali: smettere di espandersi tramite le colonie e punire chi tenta di costruirle, e essere disposto a demolire gli insediamenti illegali esistenti; ritirarsi dalla Cisgiordania e eliminare le postazioni militari presenti e il muro della separazione, rendendo così libera la circolazione dei palestinesi; eliminare il blocco su Gaza.

E i palestinesi invece? Saranno disposti, dopo due anni di mattanza nella Striscia di Gaza, a convivere pacificamente con gli israeliani? O porteranno un rancore tale da ricorrere al terrorismo, come è accaduto con Hamas il 7 ottobre? L’educazione al perdono dovrà essere il perno su cui crescere le nuove generazioni di bambini e ragazzi a cui sono stati trucidati familiari e amici solo per la colpa di trovarsi in un luogo infernale. Riuscirà Gaza a lasciarsi alle spalle un trauma così profondo e iniziare, nel caso Israele sia ben disposto, una nuova stagione di pace e armonia?

Pace significa iniziare da capo, e non se ne può fare a meno. La comunità internazionale non potrà più tollerare drammi del genere. A meno di non mettere a punto un esodo forzato dei palestinesi, a Palestina e Israele non rimane altro che legittimarsi, nella speranza che trovino accordi diplomatici tali da far desistere dal compiere attacchi terroristici da una parte, e occupazioni militari dall’altra.

Autore: Paolo Insolia

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