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Dissing Tony Effe e Fedez: quando la musica rap difetta di talento e diventa veicolo del nulla

La scorsa settimana i due hanno pubblicato brani in cui si insultano, in un botta e risposta che ha fatto milioni di ascolti.

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Dissing Tony Effe e Fedez Dissing Tony Effe e Fedez © nc
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Tony Effe e Fedez sono due volti noti della scena musicale italiana. In base al loro approccio alla musica, possiamo dire che sono rapper – anche se, per definirsi qualcosa, qualunque cosa, bisogna avere il talento necessario per poterlo fare, e qui scarseggia -. Ebbene, la scorsa settimana i due rapper si sono dissati, ovvero hanno pubblicato due brani a testa in cui si insultano e chiariscono cosa detestano dell’altro – per essere precisi, la querelle è partita da Tony Effe con il brano del progetto Red Bull 64 bars, dove all’artista di Rozzano dedica soltanto qualche frase -. 

Tutto è iniziato qualche mese fa quando, sottoposto a un’intervista, Tony Effe afferma di aver rifiutato una collaborazione con Fedez. Poco tempo dopo quest’ultimo pubblica un brano intitolato Di Caprio, dove è presente anche Niky Savage, rivale di Tony. Entrambi lanciano frecciatine al rapper romano, che si vendica davanti al microfono del Red Bull 64 bars, dove accusa Niky Savage di copiare il suo stile e Fedez di fare beneficenza ma di rimanere pur sempre un viscido. A quel punto i due pubblicano due dissing contro Tony Effe. Niky Savage non avrà risposta, mentre Fedez sì con il brano Chiara, che risponderà a sua volta con poco più di quaranta secondi di musica su Instagram, dove al termine annuncia Allucinazione collettiva, canzone che verrà pubblicata il giorno dopo all’una di notte, dedicata a sua moglie – ormai ex -, l’influencer Chiara Ferragni. 

Nella musica rap il dissing è sempre esistito. Agli albori del genere, i rapper neri statunitensi provenivano da ghetti fatiscenti dove le faide tra bande di strada, le così dette gang, e i relativi omicidi, erano all’ordine del giorno. In contesti di questo tipo sopravvive il più scaltro, il più temerario, il più cattivo; in una parola, il più forte. Da subito il rap fu il mezzo d’espressione preferito – vista soprattutto la facilità di accesso - dalla classe più emarginata e povera degli Stati Uniti, gli afroamericani, che hanno combattuto decenni per ottenere gli stessi diritti dei bianchi di origine europea – e non è ancora finita -. La loro esclusione dalla società per via del razzismo, e la povertà, trasmessa come una malattia genetica di padre in figlio, li ha costretti a vivere in quartieri popolari dove dilagava la criminalità. Dimostrare di essere i migliori, e quindi i più forti, doveva estendersi in ogni ambito della vita, e quindi anche nel rap, che aveva la prerogativa di essere immediato e libero da condizionamenti. Oltretutto acquistava di anno in anno sempre più popolarità, e di conseguenza valore. Valore che si tramutava in denaro. 

Come ogni mezzo semplice e veloce, il rap negli anni ha conquistato i giovani di tutto il mondo, specialmente quello occidentale. Sempre più persone ambivano ad affermarsi nel mondo della musica. Se negli Stati Uniti il rap ha quasi da subito ottenuto un enorme successo commerciale, in Italia bisogna aspettare il 2006 prima che diventi popolare, grazie a due artisti tutt’oggi presenti: Fabri Fibra e Mondo Marcio, realizzando il sogno di generazioni di rapper passati che, pur essendo conosciuti, non si erano mai spinti oltre i confini dell’ambiente, frequentato perlopiù da giovani e giovanissimi. Con Fibra e Marcio il rap arrivò alle orecchie di un pubblico più ampio, e catturò l’attenzione di giornalisti, critici musicali, intellettuali, che presero ad analizzarlo e a dargli ancora più visibilità. 

Com’era prevedibile, da allora in Italia molti hanno rincorso il sogno del rapper ricco e famoso, e alcuni ce l’hanno fatta. Sto parlando di Marracash, Club Dogo, Noyz Narcos e tanti altri, fino alla nuova generazione di trapper come Sfera Ebbasta, Capo Plaza e Tony Effe. La trap è una derivazione del rap: nasce nei quartieri malfamati di Atlanta, e il nome deriva dalle trap house – ovvero le case dove viene smerciata la droga -. La trap ha suoni più minimali e si contraddistingue dall’uso dell’Auto-Tune, un software che permette di creare particolari effetti sonori e di modificare la voce, rendendo gli artisti più intonati. Con il tempo il talento dell’artista, che si esprimeva nel flow – la tecnica con cui viene affrontata la produzione musicale -, nelle rime, nelle metriche e nel contenuto dei brani, ha perso la sua importanza. Prima, soprattutto negli anni Novanta e nei primi anni Duemila, essere talentuosi era fondamentale: soltanto i meritevoli vendevano i dischi e facevano i concerti. Adesso spesso vende il personaggio – almeno questa è l’impressione comune della maggior parte delle persone, critici di professione e non -, che riesce a far parlare di sé al di là della musica, magari per i procedimenti penali a suo carico, resi noti dai social network o dai quotidiani nazionali, o perché fidanzato con un’influencer famosa.  

Prima di arrivare al dunque bisogna approfondire ancora un po’ l’excursus storico del genere in questione. Come sovente accade per ogni forma di riscatto sociale, anche il rap ha sentito la necessità di uscire fuori dai binari, di diventare l’antagonista per eccellenza della società, intesa come l’insieme delle leggi da rispettare. Spesso i rapper esprimono il proprio risentimento nei confronti delle forze dell’ordine, manifestano il loro rapporto con le droghe e con la violenza, e spogliano le donne di ogni umanità per assaporarne nient’altro che la carne, come fossero state concepite per essere oggetti sessuali degli uomini. Ma i rapper, a differenza dei giovani del Movimento del Sessantotto – con cui condividono alcune battaglie, come la lotta contro ogni forma di discriminazione razziale, anche se, a dir la verità, il termine condividere è improprio, dal momento che il rap non ha mai avuto i connotati di un movimento politico – non rifiutano il capitalismo, anzi, ne sono diventati gli araldi. I rapper amano la moda, i vestiti costosi, le belle macchine, il lusso e la bella vita, e ne fanno sfoggio. Se all’inizio, e soprattutto in Italia, chi si arricchiva con il rap veniva considerato commerciale, e quindi da allontanare come Clark Kent con la kryptonite, adesso la situazione si è ribaltata: se non fai i soldi con la musica nessuno ti conosce, e perciò sei un fallito. 

Il rap aveva la grande opportunità di trasformarsi in un movimento simile a quello del Sessantotto. In fondo ne aveva tutti i requisiti. Era nato nel South Bronx nei primi anni Settanta da persone povere ed emarginate che conoscevano a fondo le insidie della vita da strada. Un movimento che, tramite la forza delle parole, potesse andare contro la società dei consumi, le multinazionali, i sovranismi, il razzismo. E alcuni celebri rapper, come in Italia Inoki Ness e in America Tupac, lo hanno fatto, ma purtroppo mai con un’intesa di gruppo generale, con coordinazione e regole precise, se non in piccole realtà. D’altronde si tratta di musica, non di politica, perciò ogni artista è slegato dagli altri e segue la propria fortuna. La maggioranza degli artisti segue il cliché del rapper con il portafoglio gonfio, nato dal fatto che attraverso la musica gli afroamericani trovarono una strada per ottenere il tanto agognato riscatto sociale. Ad oggi però il seguente cliché è diventato obsoleto e ha bisogno di restaurazione. 

Il dissing tra Fedez e Tony Effe non è forse una panoramica del nostro tempo, asettico e privo di valori stabili e di cultura - quest’ultima intesa come strumento di riflessione sul mondo e sulla vita -? Sorvolando sull’ipotesi che si siano potuti mettere d’accordo per accaparrarsi visualizzazioni, e di conseguenza monetizzare, ciò di cui si sono accusati, e il modo in cui l’hanno fatto – Tony Effe sta al rap come Michael Jordan al calcio - è di una bassezza tale da rendere profondi i cinepanettoni. Tony Effe, che più volte afferma di essere bellissimo – meglio ridere o piangere? – accusa Fedez di aver collaborato con colui che considera come la sua brutta copia, Tony Savage, che gli avrebbe copiato perfino il taglio di capelli – quale affronto! -. E poi di aver fatto i figli solamente per postarli sui social network, di aver abbandonato sua moglie nel momento del bisogno, e di essersi fatti di cocaina insieme – questo in risposta alle frasi di Fedez dove dice al rivale di farne un ampio uso -. Fedez a sua volta accusa l’ex amico di aver passato più tempo a farsi la ceretta che una modella famosa, di “non essere di strada” in quanto nato benestante, e di aver corteggiato sua moglie quando erano in buoni rapporti. Il tutto condito da frasi tipo: “Devi pagare per sentirti più real, sei solo un spia, amico della polizia”; “Hai i capelli bianchi, fatti la tinta”; “Sono il figlio preferito di Tatiana, sono il crackomane più bello d’Italia”. 

Pesa anche il fattore età; sono entrambi trentenni, non ragazzini delle scuole medie. E’ vero che la competizione è una caratteristica fondamentale del rap, e che il dissing è sempre esistito, ma non stiamo forse esagerando? Non stiamo forse dando troppa visibilità a personaggi senza alcun valore artistico, che basano la propria carriera su brani dove inneggiano all’uso di droghe e dove raccontano le loro giornate trascorse tra il parrucchiere, la palestra e il centro massaggi? Anche il seguente articolo, nel suo piccolo, incrementa la loro popolarità, ma da una prospettiva diversa da quella della semplice descrizione dei fatti dove si scommette sul vincitore dello screzio, ovvero raccontandone gli aspetti negativi, e sperare in un salto di qualità. 

In conclusione: ciò che possiamo fare per arginare fenomeni come questo è fare luce sul loro marciume e sulla loro vacuità, e sperare di essere ascoltati. L’importante è piantare il seme: il resto vien da sé. Il giornalismo è nato per fotografare eventi, analizzandoli nella loro complessità e con la massima obiettività. Tali nobili premesse hanno mosso il seguente editoriale. 

Paolo Insolia

 

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